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Sanità: la pandemia ha cambiato il quadro generale del Paese e ora la politica deve indicare una strada precisa per il futuro

21 giugno 2022


La pandemia ha cambiato il quadro generale del nostro Paese ma, senza alcun dubbio, l’ambito sanitario è stato quello maggiormente stravolto. La sanità sta infatti attraversando un momento particolarmente critico e non poteva che essere così dopo oltre due anni di una pandemia che ha aggravato la situazione del nostro sistema sanitario nazionale e che ha messo in evidenza diverse carenze strutturali che, già da tempo, conoscevamo e che ora sono esplose in maniera lampante in ogni parte del Paese. Persino le regioni più virtuose, come l’Emilia-Romagna, si trovano così oggi in seria difficoltà per quel che riguarda le risorse finanziarie e la qualità dei servizi offerti.
 
La convivenza con la pandemia sta producendo un cambiamento nella capacità di risposta del SSN e le notizie emerse in questi giorni sulla stampa locale lo manifestano chiaramente: c’è meno disponibilità di posti letto ordinari e di personale, il quale viene sottratto alle attività ordinarie con impossibilità di essere sostituito. Una disponibilità ridotta anche perché ci sono operatori non vaccinati, contagiati oppure che sono stati destinati altrove (tamponi, vaccinazioni). Ora, se vogliamo affrontare l’emergenza, che ricordiamoci non è ancora terminata, e provare a ripartire con un sistema sanitario nazionale più forte abbiamo due priorità non più rinviabili: le risorse umane e quelle finanziarie. Su entrambi i fronti scontiamo problemi che vengono da lontano, quali formazione, reclutamento, valorizzazione delle varie professioni e tetto di spesa (fermo a una legge del 2004), ma anche problemi cogenti, come il caro bollette e l’inflazione, che hanno reso vano anche il recente aumento del Fondo sanitario nazionale di 2 miliardi di euro. I dati sono emblematici e parlano chiaro: tra il 2010 e il 2019 il personale dipendente è diminuito di 42.380 unità (da 646.236 a 603.856) e il definanziamento della sanità ha raggiunto i 37 miliardi di euro.
 
C’è però, a nostro parere, un punto fermo: non possiamo accettare che la mutazione genetica del SSN, appunto già in atto, si verifichi senza una scelta politica precisa. La riforma del 1978 fu il frutto di una grande mobilitazione e discussione nazionale a cui fece seguito, dietro una spinta molto forte di sindacati, operatori ed esperti, una scelta chiara e strategica da parte della politica. Serve anche oggi una discussione nazionale sulla sanità, un grande dibattito pubblico e politico. Non servono, e non bastano più, pezze o interventi parziali. È invece fondamentale un dibattito pubblico nazionale per capire dove siamo, avendo il coraggio di fare anche un’analisi non retorica ma sostanziale, vedendo i problemi che abbiamo di fronte, che sono problemi seri, e provando a costruire una rinnovata strategia per il futuro. C’è infatti un elemento di massimo rischio: il fatto che non sia chiaro dove stiamo andando, la questione dell’autonomia differenziata è da questo punto di vista una metafora sintomatica. Probabilmente, dopo due anni di pandemia, quella sull’autonomia differenziata in sanità era una discussione nemmeno da avviare, perché noi abbiamo problemi comuni che richiedono scelte comuni e trasversali a tutto il sistema, sulla base di un confronto ampio con tutti i soggetti interessati.
 
Il Partito Democratico, che ha nella sua cultura il valore dei beni pubblici e dell’intervento pubblico nelle questioni strategiche per la vita del Paese, cioè lavoro, salute e istruzione, non può non essere baluardo di questa battaglia. Se il PD vuole essere baluardo contro le ingiustizie e le disparità crescenti non può accettare il federalismo sanitario, bensì deve lavorare per un rafforzamento del livello centrale e una guida più forte delle Regioni. Non si può destrutturare il SSN ma dobbiamo dare allo stesso ciò che ancora davvero gli manca per poter rispondere ai nuovi e diversi bisogni emersi nella società. Arrivata la pandemia tutti siamo stati pronti a ringraziare il SSN e ad elogiare operatori sanitari seri, preparati e competenti ma, adesso, questi operatori si aspettano qualcosa di più di una pacca sulla spalla, perché è sempre più evidente quella che è una vera e propria crisi di motivazione del personale sanitario e, in questo modo, dalla retorica degli eroi rischiamo di trovarci ben presto con un boomerang molto pesante e le cui conseguenze le pagheremmo tutti, nessuno escluso. Dobbiamo quindi espandere la spesa corrente con assunzioni di personale, superando i vincoli vigenti; riformare la medicina di base e le scuole di specializzazione; ridefinire i sistemi di remunerazione delle prestazioni; e, infine, finanziare la prevenzione. Da questo punto di vista dobbiamo cambiare la nostra cultura, puntando sempre di più sulla prevenzione, infatti si stima che circa il 50% delle malattie croniche sarebbero evitabili con una buona prevenzione.
 
Infine il tema del DM 71, che rappresenta un’occasione senza precedenti per il nostro Paese, non c’è infatti mai stata un’attenzione così alta sul territorio. Ma anche qui per non rendere vana la riforma servono alcuni importanti accorgimenti, abbiamo infatti un territorio debole per mancanza di risorse, professionisti disponibili e a causa del blocco della spesa. Alcune risposte positive sono arrivate, penso alle risorse della missione 6 del PNRR indirizzate proprio al territorio, alla digitalizzazione e alla formazione. Ma dobbiamo essere consapevoli che l’integrazione sociale-sanitaria non la risolviamo solo con nuove case di comunità, bensì dobbiamo partire con un ragionamento a monte, con un dialogo più forte tra Comuni e Ausl e poi, successivamente, le case della comunità diventano le sedi dove si realizza questa integrazione. Il PNRR altrimenti rischia di rimanere esclusivamente un piano edilizio se non applichiamo multidisciplinarità, integrazione socio-sanitaria e territorio-ospedaliero, maggiore valorizzazione di tutte le professionalità. Occorre poi eliminare il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, coerentemente con una nuova organizzazione del SSN dove si investa veramente sul capitale umano e si superano strutturalmente i vincoli di turnover. È necessario anche un percorso condiviso a livello nazionale per ripensare le convenzioni con i medici di base, affinché siano messi in condizione di essere la spina dorsale della sanità territoriale e delle Case di Comunità. Senza dimenticare l’importanza di investire sempre più sulla telemedicina per implementare prestazioni a livello di prossimità e domiciliarità, come previsto anche dal PNRR. Per fare tutto ciò occorrono più risorse che, al momento, non ci sono. Risorse che possono arrivare se partiamo da un ragionamento nazionale. Cioè, il Parlamento deve desumere i principi fondamentali (forme organizzative fondamentali su cui regioni hanno  poi un a funzione gestionale a cui debbono attenersi e di conseguenza approcciare le proprie organizzazioni) che stabiliscono gli equilibri tra legislazione nazionale e regionale, altrimenti non si va da nessuna parte. Senza i principi fondamentali la stessa autonomia differenziata in sanità sarebbe una pericolosa avventura. Di fronte a tutto ciò lo Stato non può, e non deve, abdicare alle sue funzioni, assicurando riforme serie e non permettendo di affrontare problemi uguali con soluzioni differenziate.


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